
Nel 1953 Adriano Olivetti impianta a Pozzuoli una nuova fabbrica per la realizzazione di macchine calcolatrici. Oltre al salario, maggiore della media, venivano offerti: assistenza e istruzione per i figli. Una novità assoluta nel Mezzogiorno d’Italia e uno stimolo molto forte per i lavoratori, i cui risultati produttivi, infatti, si rivelarono ottimi, superiori persino a quelli raggiunti negli stabilimenti di Ivrea.
Basterebbe forse questo esempio per segnare la distanza con le ricette dei manager tecnocrati oggi ( ma anche domani?) imperanti.
D’altra parte Adriano Olivetti dopo la laurea cominciò a lavorare in azienda proprio come operaio e amava dire: ‘occorre capire il nero di un lunedì nella vita di un operaio. Altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa fanno gli altri.’
L’attenzione ai lavoratori e al territorio saranno il marchio della Olivetti che in breve divenne un’azienda modello per innovazione e qualità dei prodotti forse anche per l’idea della responsabilità sociale dell’impresa
Contrapposta all’idea Olivettiana negli anni 50 c’era la concezione vallettiana ( la Fiat) da una parte Valletta: concentrazione, verticalizzazione, comando; dall’altra Olivetti: dialogo, cogestione, orizzontalità, territorio.
Da una parte la company town, dall’altra il rapporto dolce tra fabbrica e territorio che vuol dira anche creazione di reti di trasporto dai comuni delle valli all’impresa e reti socio culturali di biblioteche nei paesi. Differenze stridenti anche nelle forme dei lavori e di produzione delle merci. A Torino il fordismo hard del «comprino la macchina del colore che vogliono, purché nera», basato sul ferreo controllo della catena del valore, la catena di montaggio che metteva al lavoro l’operaio massa. A Ivrea un’attenzione maniacale basata sulla ragnatela del valore che incorporava tendenze, design, saperi, comunicazione.
Per dirla con Guccini la storia ci disse poi come fini la corsa: la visione Fiat risultò vincente.
In seguito spesso si è parlato dell’esperienza di Olivetti con ammirazione ma come un unico un qualcosa di irripitibile, proprio come a voler sgombrare il campo da possibili visioni diverse da quelle imperanti.
Ma oggi a più di Cinquanta anni dalla morte, con grandi centri di potere e di pensiero ancora in mano al pensiero dominante, la visione di Olivetti sembra (ri)cominciare a destare interesse. E d’altra partre le imprese che più e meglio hanno resistito a questa crisi, e che possono rappresentare l’ossatura della ripresa, spesso sono quelle medie imprese internazionalizzate che sembrano aver fatto proprio l’idea olivettiana del rapporto fabbrica-territorio. Per fare alcuni esempi si possono ricordare: Cucinelli a Solomeo, Ferrero nelle Langhe, Boccia a Salerno, Diesel di Renzo Rosso nel Nord Est
Se la crisi dell’economia e la trasformazione della sfera sociale e politica rendono ancora più contemporaneo il suo pensiero occorre riflettere su quello che lo stesso Olivetti ricordava: “I tempi corrono, le cose si muovono, non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzioni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono”.Dunque se le concezioni della fabbrica e della società di Adriano Olivetti non sono un Totem, né nel senso di un sistema sacro ma inapplicabile né nel senso di una soluzione per i nostri mali, possono rappresentare uno spunto di riflessione per trovare quelle soluzioni che coniughino crescita economica con sviluppo territoriale, sociale e culturale.Ora si inizia a parlare della possibilità di ripresa economica ed è un bene, ma dopo l’esperienza degli ultimi anni occorre che l’ inizio di discussione sul sistema economico dominante, in cui l’uomo di fatto pare essere soggiogato all’economia, non si fermi. cercando di raggiungere l’obiettivo coniugando coraggio, impegno e speranza, magari anche riprendendo qualche buona esperienza rimasta incompiuta e difendendo quanto di buono si fa avanti.
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