La poesia come scandalo del pensiero dominante: tra sacro e profano.

Nell’immaginario comune, la poesia rappresenta quella forma di scrittura per cui si tende a rappresentare, per mezzo di uno stile più alto possibile, qualcosa che a sua volta ha una dignità ontologica elevata. Pensiamo ad esempio al dolce-stilnovo e alla rappresentazione della donna amata (la Vita nova di Dante ad esempio, il cui nucleo narrativo ruota attorno all’amore nei confronti di Beatrice), oppure alla poesia di carattere funebre (per citare sempre un esempio della grande poesia italiana, Pianto antico di Giosuè Carducci, in memoria del figlio morto prematuramente), o ancora la poesia di carattere nostalgico, commemorativa di un tempo ormai perduto, elevato spiritualmente e gnoseologicamente (la poetica del fanciullino di Giovanni Pascoli). Questi sono solo tre esempi nei quali si può rintracciare una prospettiva aulica nei confronti del mondo e delle sue cose.

Tuttavia questa visione è tipicamente nostra; l’abbiamo interiorizzata, forse, a causa dei programmi scolastici delle scuole superiori, i quali escludono numerose altre sfaccettature che la poesia può assumere ed ha assunto nel corso dei secoli; un esempio su tutti è Catullo con i suoi carme di argomento omoerotico, esplicitamente e volutamente volgari (ad esempio il Carme 58, in cui si dispera per il fatto che quella Lesbia che ha amato ora sia intenta a soddisfare sessualmente la gioventù romana).

Queste poesie esistono perché i poeti non sono esseri trascendenti, privi di carne e sentimenti: sono esseri umani come noi. Per approfondire questa questione vi rimando qui ad un mio articolo.

Tuttavia, non occorre spingersi fino all’età latina (per quanto la lettura dei classici latini non sia per questo meno affascinante e divertente) per rintracciare altri volti della poesia.

Nel XIX secolo, in Francia per la precisione, ci fu un gruppo di poeti i quali ebbero di mira la tradizione poetica per come anche noi oggi la conosciamo, mettendo in discussione temi e strutture stilistiche: stiamo parlando dei poeti maledetti. Ecco, nella maggioranza dei casi i poeti maledetti non vengono trattati alle scuole superiori (ad eccezione, forse, per chi studia il francese, oppure se il docente sceglie di farne un breve accenno quando tratta la Scapigliatura in Italia); eppure ogni volta che, terminato il percorso della scuola superiore (oppure durante), qualcuno viene per caso a conoscenza di questo gruppo di poeti così irriverenti, non è inusuale che si chieda: <<perché a scuola non si insegnano?>>. Le risposte di solito riguardano le tempistiche: non si può fare tutto, dei tagli sono necessari; oppure riguardano la volgarità di molti testi di questi autori e quindi una conseguente difficoltà da parte del docente a spiegarne i contenuti; diremmo quindi, un problema di pudore.

Ma qua non siamo a scuola ed oggi tenteremo di leggere una poesia maledetta di carattere volutamente provocatorio e scandalistico. Innanzitutto partiamo dall’aggettivo maledetti: a che cosa si riferisce? Esso ha a che fare con lo stile di vita tenuto da questi autori, i cui emblemi erano l’assenzio (definito <il terzo occhio dei poeti>) e l’oppio. Li si poteva trovare barcollanti durante la notte per le vie di Parigi.

Oggi parleremo di un poeta che ha reso proprio questo stile di vita fin da giovanissimo: Arthur Rimbaud, il quale comincia a scrivere all’età di quindici anni e smette circa a venti.

La poesia è intitolata Preghiera della sera; veniamo subito al testo.

Vivo seduto, come un angelo nelle mani di un barbiere,

impugnando un boccale con profonde scanalature,

l’ipogastro e il collo arcuati, una Gambier

fra i denti, sotto i cieli gonfi di impalpabili veli.

Come i caldi escrementi di un vecchio colombaio,

mille Sogni mi bruciano dolcemente in petto:

ogni tanto il mio cuore è triste come un alburno

insanguinato dall’oro giovane e cupo delle colature.

Poi, quando ho soffocato con cura i miei sogni,

mi volto, dopo aver bevuto trenta o quaranta boccali,

e mi concentro per liberar l’aspro bisogno:

mite come il Signore del cedro e degli issopi,

io piscio verso i cieli bruni, molto in alto e lontano,

con l’approvazione dei grandi eliotropi.

Questo sonetto di Rimbaud racconta propriamente di una sbronza presa in un locale. Le immagini per quanto macabre e orride, sono condite da uno stile che mira ad esaltarle. La prima strofa, ci presenta la scena: Rimbaud è seduto in un bar, piegato in avanti, fumando una pipa; la seconda strofa potrebbe esser vista come un’introspezione rivolta verso i sogni che ribollono come <escrementi>: questa similitudine così bassa, si innalza nella misura in cui, in fin dei conti, rende bene l’idea del ribollire e della condizione stantia di questi sogni; rappresenta una novità, un punto di rottura rispetto alla tradizione precedente: il brutto diviene bello.

Ma sono le due terzine finali che tirano fuori il blasfemo: questi sogni vengono soffocati da un’enorme quantità di alcol (è l’utilizzo della figura retorica dell’iperbole che rimanda a questa pratica eccessiva: <dopo aver bevuto trenta o quaranta boccali>); il poeta è pronto per liberarsi sia fisiologicamente sia da questi sogni; è qua che emerge il blasfemo, in quanto due immagini bibliche, <il Signore del cedro> e gli <issopi>, fiori che, nella tradizione biblica, sono associati alla purificazione, sono seguiti dal verso in cui il poeta dichiara di pisciare liberamente. Questo pisciare è la purificazione data dagli issopi, il cui valore viene sporcato.

In ultima analisi, rivolgiamoci al titolo della poesia: Preghiera della sera sta ad indicare la ripetitività di questo gesto e di questo tipo di serate in generale. Ma le preghiere della sera sono, nella tradizione cristiana, un ciclo di preghiere tra le quali sono comprese anche Padre nostro e Ave Maria.

Queste ultime considerazioni (sul cedro, gli issopi e il titolo) portano questa poesia su un piano blasfemo ancora più alto: non solo si rappresenta l’alcolismo, il fumo ed atti osceni in luogo pubblico, ma ci si prende gioco anche della liturgia cristiana.

Tutto ciò ci aiuta a comprendere come in poesia si possa trovare qualsiasi stato d’animo, prospettiva sul mondo, più o meno incline a una rottura o a una continuità con esso e con i suoi ideali dominanti. La poesia, come le discipline umanistiche in generale, ha avuto il compito non solo di accompagnare le comunità, ma anche e soprattutto di provocarle, di metterne in evidenza i limiti e i paradossi e questa pratica può essere svolta in qualsiasi modo, anche con un linguaggio volutamente e provocatoriamente volgare.

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