Una musica è finita?

Una riflessione che in parte muove dall’ascolto dell’ultimo album di Caparezza e che, va premesso, è fatta da chi di musica ne capisce poco. O quantomeno non si ritiene certo un esperto.
Caparezza è stato uno dei primi artisti che ho incontrato e che ho seguito assiduamente, andando ai suoi concerti e recuperandone i dischi vecchi.
Al di là di cosa ha rappresentato per me anche a livello nazionale veniva riconosciuto come un artista “impegnato” ed aveva una certa risonanza anche nella sfera della musica definita mainstream. I suoi testi erano spesso irriverenti e talvolta portatori di un messaggio politico. Questa forma espressiva veniva unita ad una musica comunque orecchiabile più digeribile del rap classico dei primi anni 2000 rendendosi fruibile anche ad un pubblico più generalista.
A livello tematico, ed in parte anche stilistico, Caparezza ha intrapreso una svolta più intima con gli ultimi lavori, svolta dettata in primo luogo da nuove esigenze artistiche ma anche a causa di alcuni avvenimenti personali (non per ultimo il suo soffrire di acufene). Non sto qua a discutere di queste scelte, che in quanto dettate da una necessità dell’artista sono sempre giuste, anche se possono non piacere, né se il disco mi sia piaciuto o meno, ma comunque ve lo consiglio, quanto del fatto che Caparezza è sempre stata una mosca bianca tra gli artisti contemporanei del mainstream e che con il suo passaggio ad una svolta più
personale ha lasciato un ruolo vacante.
Con la premessa iniziale volevo sottolineare la mia scarsa conoscenza della scena musicale più underground o emergente e fuori dai grandi circuiti, quella più nascosta, ma pare che sempre più l’idea di un artista impegnato, quantomeno a livello mainstream sia sparita. Una tendenza a cercare di esprimere un significato con il proprio lavoro l’ho vista in parte con l’ultimo disco di Marracash, forse musicalmente, almeno a mio gusto, non pienamente riuscita, ed in parte si ritrova nei lavori di Willie Peyote. Tuttavia sempre più sembra che ci si stia svicolando dall’idea che con la musica si possa portare un messaggio o
una rivendicazione. Ciò che maggiormente passa per le radio è una musica di accompagnamento, una canzone che parla di grandi tematiche generali e spesso fine a sé stessa con un calo della qualità della scrittura di testi.
Sicuramente in parte si è evoluto il mercato musicale a causa delle piattaforme streaming e dei loro algoritmi. L’idea stessa dell’album dell’artista è cambiata, sempre meno si vedono album strutturati con un filo conduttore che lega le varie canzoni e che richiede un impegno all’ascolto quanto piuttosto si tratta di playlist di canzoni che possono tranquillamente essere ascoltate singolarmente e che sono assieme solo per l’esigenza di far uscire un album. Allo stesso modo sempre più si cerca il singolo, singola uscita che
permette di massimizzare gli ascolti sugli streaming, che possano sfondare sui social diventando un trend spesso replicando schemi di pezzi che già hanno successo e che spesso sono sostituite in un paio di settimane da un nuovo pezzo che seguirà le stesse regole. Così si crea una serie di canzoni strutturalmente uguali tra loro, con un ritornello orecchiabile, una musica ballabile e un paio di strofe che si trovano soprattutto per far passare del tempo tra i due ritornelli, perché metterli in fila sarebbe stato troppo.
In parte questo sistema è reso possibile dalla nuova idea che un artista deve principalmente vendere, la musica deve essere consumata e si è assetati della novità. Un testo complesso richiede una ricerca, una cura ed un attenzione nell’ascolto. Tutto ciò sembra comportare troppo lavoro nel mondo di oggi.
Similmente spesso le varie case discografiche e le piattaforme streaming sono maggiormente interessate al profitto, si cerca di cavalcare cosa va per la maggiore e si privilegia sempre la quantità alla qualità.
Spesso le piattaforme sono nemiche di album lunghi ma sognerebbero una canzone nuova a settimana di cui si massimizza l’ascolto e poi viene dimenticata. In questo contesto un testo “impegnato” diventa problematico, un artista che prende posizione potrebbe alienarsi parte di un potenziale pubblico e dunque veder ridurre il margine di consenso tra il pubblico. Questo gioco si nota soprattutto nella classe musicale giovane che emerge al mainstream, che dovrebbe avere linfa vitale per scardinare ciò che si trovava prima
portando energie nuove e un nuovo punto di vista ma si perde in questo gioco, anche a causa dei cattivi consigli di chi li guida (ricordate il caso dei biglietti regalati per riempire concerti negli stadi di artisti che ancora non avevano la caratura per poterli afre ma annunciati solo per motivi di marketing?).
Insomma la congiuntura sociale ed economica non invita certo alla complessità.
La domanda che sorge a questo punto è se questa perdita sia dovuta ad un disinteresse della platea di ascoltatori ad un determinato tipo di musica che quindi non riesce ad emergere per mancanza di interesse;
se sia il sistema, musicale ed economico, che invita a creare un prodotto semplice e tende a far emergere solo quello e che poi il pubblico accetta passivamente in quanto l’ascoltatore viene plasmato dall’offerta che gli si vuole vendere o se magari esiste una fascia resistente che ricercherebbe questo tipo di musica e che si sente perso nel panorama contemporaneo. Io mi sento un po’ tra queste persone, e qua ritorno al punto di partenza, Caparezza ha sempre rappresentato quel giusto compromesso tra una canzone più mainstream e un testo con un messaggio e che oggi mi pare manchi e non si veda all’orizzonte.
E questo pezzo sta lì forse a ricordarmi di non accettare passivamente ciò che mi è dato e a invitarmi a ricercare qualcosa di meno conosciuto da supportare e che magari ha qualcosa da dire o forse è solo una richiesta se voi lettori avete qualcosa da consigliare.

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