Dopo decenni di crescita vertiginosa, il mercato dei videogiochi ha rallentato la sua corsa, stabilizzandosi su tassi di crescita più contenuti (seppur molto positivi). Nonostante ciò, rimane oggi uno dei settori più rilevanti a livello economico globale. Basti pensare agli ingenti profitti che hanno trainato colossi come Sony, Microsoft, Nintendo e Nvidia, grazie alla vendita di piattaforme hardware e titoli videoludici. Secondo il Gaming Report 2024 della Bain & Company (una nota società di consulenza strategica con sede a Boston), il mercato globale del gaming ha registrato un fatturato di 196 miliardi di dollari nel 2023, con una crescita annuale del 6%. Se questa tendenza dovesse mantenersi, si potrebbe raggiungere un ricavo di 257 miliardi di dollari entro il 2028. Il report evidenzia anche l’aumento della pervasività del videogioco nella vita quotidiana: le ore di gioco settimanali sono passate da 8,5 a 10,1 e la spesa all’interno dei giochi è anch’essa aumentata sensibilmente. Questa diffusione capillare del gaming ha attirato l’attenzione anche degli attori statali, i quali hanno iniziato ad approfondire un fenomeno che, prima del XXI secolo, era considerato di nicchia. In realtà, gli Stati Uniti, e in particolare il Dipartimento della Difesa, avevano già colto il potenziale dell’industria videoludica nell’ultimo decennio del secolo scorso. Già nel 1999, il Pentagono stanziò 150 milioni di dollari per esplorare le potenzialità dei videogiochi in ambito militare, a cui si aggiunsero ulteriori 70 milioni nel 2008. Fu evidente fin da subito come alcuni titoli potessero diventare strumenti di propaganda, affiancandosi a quelli cinematografici di Hollywood. Non sorprende quindi che giochi come Medal of Honor o Call of Duty abbiano ricevuto finanziamenti pubblici per i loro primi capitoli. Proprio la serie di Call of Duty è uno degli esempi più lampanti. Chiunque abbia giocato alla modalità campagna di un titolo della serie di Activision sa di cosa sto parlando. Si viene catapultati in una storia lineare e ideologicamente estremamente unilaterale, in cui i buoni (sempre gli americani), devono neutralizzare una minaccia (sovietici, lord della droga nicaraguensi, russi post-sovietici, Fidel Castro, altri russi e così via). Questa collaborazione tra Stato e industria videoludica si è evoluta nel tempo, assottigliando sempre di più le distanze tra i due mondi. Un esempio recente esignificativo è stato riportato da Veronika Melkozerova in un articolo pubblicato su Politico.
L’autrice racconta di come le logiche di punteggio dei videogiochi siano state integrate nell’esercito ucraino durante la guerra contro la Russia. Secondo l’inchiesta, è stato creato un programma chiamato “Bonus dell’Armata dei Droni”, che riprende il sistema di punteggio di giochi come Call of Duty o Battlefield. In modalità multigiocatore, ogni azione genera un punteggio in base alla sua rilevanza: distruggere un sistema di difesa vale pochi punti, mentre abbattere un carro armato o eliminare un giocatore ne vale molti di più. Lo stesso principio è stato applicato nel programma militare ucraino. In pratica, ogni soldato che, tramite un drone, riesce a colpire un obiettivo nemico riceve un punteggio commisurato all’importanza del bersaglio. Ad esempio, danneggiare un carro armato vale 20 punti, distruggerlo 40, e abbattere un sistema missilistico mobile ben 50. L’uccisione di un soldato russo, invece, vale solo 6 punti. I punti accumulati possono poi essere spesi sulla piattaforma “Brave1 Market”, definita dal ministro per la trasformazione digitale ucraino, Mykhailo Fedorov, come “l’Amazon dei militari”. Attraverso questa piattaforma, i soldati possono ordinare droni più avanzati o potenziamenti per quelli già in uso. Una volta effettuato l’ordine – pagato con i punti ottenuti – è anche possibile lasciare recensioni utili ai produttori per migliorare ulteriormente i dispositivi. Questo sistema premia le unità più efficaci, riduce la burocrazia e consente ai soldati di ottenere rapidamente l’equipaggiamento necessario.
Anche altri Paesi hanno integrato elementi videoludici nelle loro strategie militari, dimostrando come il confine tra gioco e guerra si stia facendo sempre più sottile. In Cina, ad esempio, l’Esercito Popolare di Liberazione ha sviluppato lo sparatutto Glorious Mission, pensato sia come strumento di addestramento che di propaganda patriottica. Parallelamente, le autorità cinesi promuovono titoli che rafforzano i valori nazionali e censurano quelli percepiti come contrari alla narrativa ufficiale. Israele, invece, impiega da anni simulatori ad alto contenuto videoludico per la formazione delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), mentre l’Unità 8200 — specializzata in cyber-intelligence — utilizza logiche di gamification per attrarre giovani talenti, attraverso sfide e competizioni ispirate agli e-sport. Anche la Russia ha cercato di sfruttare il medium videoludico in chiave ideologica, sostenendo lo sviluppo di giochi che valorizzano una lettura patriottica della storia nazionale e criticando duramente titoli occidentali considerati ostili alla propria immagine. In Corea del Sud, infine, la cultura videoludica è stata in parte assorbita nel contesto militare obbligatorio, con studi sull’uso di dinamiche di gioco per migliorare l’efficienza dell’addestramento e, più recentemente, come supporto psicologico per i reduci. In conclusione, la crescente commistione tra videogioco e guerra solleva interrogativi profondi sul piano etico e culturale.
Se da un lato queste tecnologie possono aumentare l’efficienza operativa, dall’altro rischiano di anestetizzare la percezione della violenza. Inserire azioni belliche — come l’uccisione di esseri umani o la distruzione di obiettivi militari — all’interno di sistemi a punteggio, classifiche o ricompense digitali comporta una gamificazione della guerra che può portare alla perdita di senso morale. La distanza emotiva e fisica data dall’interfaccia digitale, unita alla logica competitiva dei videogiochi, trasforma atti tragici in semplici “obiettivi raggiunti”. In questo contesto, il pericolo non è solo tecnologico, ma umano: l’idea stessa di conflitto viene depurata del dolore, del sacrificio e della complessità che la caratterizzano nella realtà. Quando la guerra diventa un videogioco, il rischio è che anche la morte perda il suo significato. In tal senso la gamificazione della guerra potrebbe inserirsi nella stessa logica dell’uso di droghe durante i conflitti. E così gli eserciti avrebbero un altro strumento per alienare i propri soldati dalle azioni e dal conflitto che stanno vivendo, affiancando all’uso di anfetamine, stimolanti e tranquillanti una logica ancor più depersonalizzante
