Per una prospettiva etica dopo la morte di Dio


L’annuncio della morte di Dio da parte del folle uomo nell’aforisma 125 dell’opera intitolata La gaia scienza (1882) è, probabilmente, la metafora nietzscheana più famosa e sicuramente una delle più discusse. La sua influenza arriva fino a noi, pensiamo ad esempio al brano dei Nomadi Dio è morto, o alla canzone Federico di Rancore il cui ritornello recita: <sapevi che Dio è morto? O almeno così dice Nietzsche…>.
Ma che cosa significa che Dio è morto? Si sono date un’infinità di interpretazioni di questa
metafora, molte delle quali si limitano a dichiarare la fine della religione e dei valori ultraterreni.
Tuttavia questo tipo di interpretazione non tiene conto delle conseguenze che questa metafora ha sul ruolo dell’essere umano nel mondo.
In primo luogo ci rivolgeremo al testo, cercando di evidenziarne i momenti salienti.
Il brano comincia con uno stile aneddotico che consente di introdurre la vicenda narrata:
Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare: <cerco Dio cerco Dio>1.
C’è un paradosso all’interno di questo incipit: un uomo ha acceso una lanterna in pieno giorno.
Perché? Nietzsche si richiama a Diogene di Sinope che, secondo la leggenda, era solito recarsi ad Atene in pieno giorno con anch’egli una lanterna accesa gridando: <cerco l’uomo>.
La lanterna è accesa perché sta per calare il buio, un buio che non si estinguerà più neanche con la luce del sole: è l’epoca della morte di Dio.
Gli uomini del mercato deridono l’uomo folle, il quale pronuncia un’invettiva rivolgendosi a loro, a sé stesso ed a tutta l’umanità, la quale è responsabile di aver ucciso Dio con le sue stesse mani: nessuno è escluso. Le immagini per quanto tragiche sono di una bellezza unica (Nietzsche è anche un grandissimo scrittore); e se le immagini sono tragiche è perché tragiche sono le conseguenze di questo avvento che di per sé si è già dato, ma che alle coscienze degli uomini resta ancora celato.
Per questo l’uomo folle, vedendo sbigottiti gli uomini del mercato è spinto a concludere:
<vengo troppo presto>, […] <<non è ancora il mio tempo. Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino — non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini.2
Morte di Dio è la crisi di tutti i valori ultraterreni. Dio è l’acme di questi valori, il valore par
excellence, quello da cui discendono tutti gli altri. È grazie a Dio che gli uomini hanno imparato come camminare, correre, saltare, giocare, ridere, piangere e riprodursi; hanno appreso da lui ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in senso assoluto; ad esempio gli uomini non rubano perché sanno che questo non è gradito al loro Dio.
Ma soprattutto, poiché gli uomini temono la morte, il loro Dio è stato in grado di insegnarli come sopravvivere ad essa, ovvero rispettando quelle norme e quei valori che a lui sono graditi: solo e soltanto in questo modo sarà possibile raggiungere la felicità. Questa è l’etica dell’epoca di Dio.
Se Dio muore si entra in una nuova fase, caratterizzata da ciò che viene chiamato nichilismo (da nihil, nulla), ovvero un momento in cui non esiste più nessun valore, dove gli esseri umani hanno perso qualsiasi punto di riferimento.
Ciò che in Nietzsche era profezia, nell’epoca in cui viviamo diviene una vera e propria diagnosi: noi viviamo immersi nella malattia del nichilismo, che se ne sia o che non se ne sia consapevoli.
E quali sono i sintomi di questa malattia? In primo luogo l’aumento delle patologie e delle tendenze depressive nei giovani; in secondo luogo la frenesia di un mondo che ci spinge a performare in vista di qualcosa che non si riesce a definire, ergo l’assenza di uno scopo, l’impossibilità di riuscire a vederlo. Tutto questo significa morte di Dio: l’assenza di uno scopo, l’assenza dei valori.
Ma che cosa fare? L’errore secondo Nietzsche è quello di mascherare il cadavere di Dio: è ciò che già commettono gli uomini del mercato (che potremmo identificare come i filosofi di metà/fine Ottocento) i quali credono di creare nuovi valori ma in realtà si limitano a travestire il cadavere di Dio da Scienza o da Storia o da Stato: alla fede in Dio si sostituisce la fede in queste tre macrocategorie.
Tra queste tre macro-categorie quella che ancora vive forte, sana e in salute, sembra essere proprio la Scienza; e congiuntamente ad essa l’economia post-capitalista. Come? Queste categorie non sarebbero due simulacri di Dio? Si è detto poco sopra che Dio ha insegnato agli uomini a vivere e a come raggiungere la felicità. Ma in virtù di ciò: -per quanto riguarda l’economia post-capitalista, essa ci insegna che per poterci arricchire (e l’arricchimento è ciò che si potrebbe definire felicità all’interno di questa cornice) è utile investire in finanziamenti auspicando la crescita dei nostri risparmi; ma questa etica della speranza è la medesima dell’epoca di Dio, solo che anziché pregare Dio, in un certo senso si prega il Mercato per far sì che cresca e che possa garantirci un guadagno e quindi una felicità maggiore.
-La felicità nel campo della Scienza potrebbe essere identificata nella Conoscenza del tutto.
Tuttavia, è noto che tante più scoperte scientifiche si fanno tante più questioni si aprono e quindi, paradossalmente, meno cose conosciamo; questo spinge ad auspicare un’epoca in cui la Conoscenza del tutto sarà raggiunta; è una felicità che è sempre rimandata. Ma anche questa dinamica può essere sussunta sotto la categoria di etica della speranza e ricalca esattamente la felicità ultraterrena dell’epoca di Dio.
I limiti delle maschere di Dio sembrano essere i seguenti: la passività dell’uomo, il quale riceve norme e valori da qualcos’altro da sé e la rilevanza del concetto di speranza, la quale non si rivela altro che illusione. Questi due punti sono la base della terapia da attuare per provare ad alleviare i sintomi della malattia del nichilismo.
Per vincere il nichilismo senza esser costretti a respirare l’aria sozza del cadavere putrefatto di Dio travestito da Scienza ed economia post-Capitalista, è necessario in primo luogo ribaltare il modo di vedere le cose: la passività del soggetto deve divenire attività. Un soggetto attivo non è una pura forza bruta libera di fare ciò che vuole; è anzi, un essere umano che, conscio dei suoi limiti e delle sue vulnerabilità, sceglie di essere sé stesso, il suo centro valoriale, il quale può mutare se questo soggetto cambia.
La questione della speranza, sive della proiezione nel futuro della felicità, sovvertendo il punto di vista, sembra indirizzarci verso un’etica dell’hic et nunc. Un soggetto così come noi lo pensiamo è partecipe di un processo continuo di cambiamento all’interno del quale sceglie come essere, come diventare. Questa scelta è del tipo: io scelgo chi e come essere ogni giorno ed in ogni attimo della mia vita. La padronanza di sé e delle cose che dipendono da noi (quelle per cui tendenzialmente soffriamo non dipendono da noi, come ci dice Epitteto nell’incipit del suo Manuale3) sembra essere l’unica vis in grado di consentirci di vivere non interiorizzando un’etica della speranza, la quale, contrapposta a quella che potremmo chiamare etica della scelta, si mostra in tutta la sua capacità di logorare il soggetto.
È opportuno sottolineare che, dal momento che questo soggetto è conscio di essere vulnerabile ed immerso costantemente in un processo di metamorfosi in cui sceglie ogni volta come essere, esso non mira a sostituirsi a Dio, come si potrebbe obiettare.
In conclusione, questo è solo un abbozzo di una tra le infinite possibili etiche della scelta. Lo scopo non è quello di esaurire la questione, né tanto meno si pensa di averla instradata definitivamente. La metamorfosi del sé agisce anche a questo livello

NOTE

1 F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina (1882), Adelphi edizioni, Milano 2020, traduzione di
Ferruccio Masini, p.162.
2 Ivi, p. 164.
3 Epitteto, Manuale, RCS media group 2012, traduzione di Martino Menghi, p.3

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