Armiamoci per la Pace

Qualche giorno fa, il segretario della NATO Mark Rutte, ha affermato che i paesi europei che
non hanno ancora raggiunto il 2% del PIL per la spesa nel settore della difesa si dovranno
adeguare entro la prossima estate. Rutte ha aggiunto che ciò è di vitale importanza per
raggiungere la nuova soglia imposta dalla NATO del 3% del PIL, molto vicina a quella statuita
da Donald Trump del 5%. Il riferimento di Rutte era rivolto a 8 paesi in particolare, tra cui
troviamo l’Italia, la Spagna e il Belgio, mentre sono volati elogi verso la Polonia, virtuosa di
aver alzato la spesa pubblica in materia di difesa fno al 4,7% del PIL. Non a caso la Polonia,
soprattutto dallo scoppio della guerra in Ucraina in poi, è stata elevata a modello da seguire
per tutti gli altri stati europei. Nel 2024 i 27 stati membri dell’Unione Europea hanno speso in totale 326 miliardi di euro nel settore della difesa, con un aumento previsto di altri 100
miliardi nel 2027. Una cifra che è più che raddoppiata negli ultimi vent’anni. Notiamo quindi
come ad oggi siamo all’interno di una vera e propria corsa al riarmo, paventata da alcuni
analisti già qualche anno fa e ribadita nel discorso di insediamento della presidente della
Commissione Europea Ursula von der Leyen. Questa corsa, però, non sembra arrestarsi, ed
anzi, continua ad andare avanti a velocità sostenuta. Se compariamo la sola spesa pubblica
dell’UE con quella della Federazione russa possiamo vedere che quest’ultima spende ben
200 miliardi in meno, una cifra comunque astronomica se consideriamo che il suo PIL è quasi la metà di quello tedesco. Infatti, la spesa pubblica russa per la difesa ha raggiunto il 32,5% del PIL, una percentuale che, com’è evidente, erode la capacità dello stato di intervenire in qualsiasi altro settore come l’educazione, le politiche sul lavoro o la sanità.
Nonostante l’insuccesso militare russo, che ricordiamo, aveva come obiettivo quello di
rovesciare il governo di Kiev in pochi giorni, per sostituirlo con uno a lei più vicino, e che ha
invece portato ad una guerra di logoramento che dura ormai tre anni, senza aver guadagnato molto in termini territoriali rispetto a quelli già occupati nel 2014 e 2016, ci sentiamo dire che bisogna prepararci alla guerra. Ma alla guerra con chi? Infatti, è difficile credere che la Russia riesca a vincere la guerra in Ucraina e poi ad avere ancora forza per attaccare l’Europa. E poi a quale scopo la Russia dovrebbe attaccare l’Europa? Con quali mezzi, risorse e uomini?
Proprio da un punto di vista demografco la Russia è uno stato sottopopolato con una
popolazione di 146 milioni di abitanti che coprono un territorio di 17 milioni di chilometri
quadrati, contro gli oltre 450 milioni dell’Unione Europea su un territorio 4 volte inferiore a
quello russo. Ma allora da dove deriva tutto questo allarmismo da parte dei governi europei e
dai media occidentali? E perché dobbiamo spendere ancora di più per contrastare un paese
che non riesce a vincere una guerra contro uno stato, che sulla carta, avrebbe dovuto cedere
dopo qualche mese o addirittura settimana?
Beh, una risposta la sappiamo già, servono soldi! Abbiamo bisogno di denaro per rientrare
delle spese sostenute a causa della pandemia del 2020-2021 e fermare la corsa verso l’alto
del debito pubblico. Ma chi ne ha più disperato bisogno sono gli Stati Uniti. Come riportato
dall’ISPI il rapporto debito su PIL negli USA è oggi al 97,8%, destinato ad aumentare fno al
118% nei prossimi 10 anni, una cifra non sostenibile dalla più grande economia mondiale (per adesso). E quindi quale miglior modo per trovare fondi se non quello di far ripartire il motore del settore bellico, da sempre carburante pregiato dell’economia statunitense? Secondo uno studio di Mediobanca del 2024, le aziende produttrici di armamenti bellici che hanno registrato un maggiore aumento dei proftti sono la Lockheed Martin (produttrice dei famosi F- 35 e dei missili Javelin), seguita dalla Raytheon, la divisione militare di Boeing, Northrop Grumman e General Dynamics, tutte aziende che hanno in comune il fatto di essere statunitensi e di appartenere a grandi colossi della fnanza come Blackrock, Vanguard e Jp Morgan. In Europa le migliori in termini di performances invece sono l’italiana Leonardo che conta tra i suoi azionisti vari fondi americani e la tedesca Rheinmetall i cui primi tre azionisti, indovinate un po’, sono statunitensi (Capital research, Fidelity e Wellington). Gli Stati Uniti sono anche il maggiore esportatore di armi ai paesi europei, con un terzo delle armi vendute che vengono acquistate da quest’ultimi. Per quanto riguarda l’Italia invece, che, come è stato detto in apertura, è uno dei paesi “poco virtuosi”, secondo la linea tracciata da Rutte, la spesa per il settore della difesa ha raggiunto 33 miliardi di euro. Di questi il governo Meloni si prepara a spendere nei prossimi tre anni 13 miliardi di euro l’anno solo per gli armamenti, ovvero il 40% del totale della spesa pubblica destinata al settore della difesa. Se poi dovessimo raggiungere il tetto fissato da Rutte del 2% del PIL, allora si arriverebbe alla cifra di 44 miliardi.
Per capire meglio queste cifre basti pensare che la legge di bilancio del 2025 ha stanziato solo 30 miliardi di euro. Ancor più importante è sottolineare l’aumento delle spese per la difesa nel 2025 pari al 10%, mentre l’istruzione e le politiche per il lavoro fanno registrare un aumento sotto lo 0,5%. A questo si aggiunge la volontà del governo Meloni di modifcare la legge 185/90 sull’export di armi italiane per favorire un allentamento dei controlli da parte del parlamento e dei cittadini sulla vendita delle armi all’estero. Un regalo del governo ai lobbysti delle armi che riduce la trasparenza e aumenta lo spazio di manovra di questi ultimi. Infne, è giusto citare alcune illustri frme di giornali mainstream, come quella del professor Panebianco che sul Corriere della Sera afferma la necessità di preparare le opinioni pubbliche europee per far accettare uno spostamento della spesa pubblica sulla difesa.
Appare quindi evidente che un’opposizione alla corsa al riarmo sia ad oggi non solo
necessaria ma doverosa e che un dibattitto sulla necessità di una difesa comune europea o di un’altra forma che possa sostituire o affiancarsi alla NATO sia vitale. Questo però ad oggi
sembra impensabile, non solo in Italia, dove nessuna forza parlamentare mette in
discussione il patto atlantico, ma anche negli altri stati membri, rendendoci di fatto
impotenti. Ad oggi nelle relazioni con gli USA, la percezione che si ha e che da la stessa UE è
che il suo peso è paragonabile a quello delle isole Palau. E intanto Trump annuncia i dazi al
25% sull’alluminio e l’acciaio, fa quello che vuole e decide del futuro di un paese ai confni
dell’Unione trattando come bambini i vari capi di stato europei addormentati in un torpore
sempre più complice e sempre meno rassicurante. In tutto questo viene ribadita con forza la
necessità di investire ancora di più nella difesa, a scapito di quel Welfare state ormai sempre più debole e minacciato da tagli alla sanità, all’istruzione, alla ricerca e che non può che portare che ad una sola conclusione: la privatizzazione massiccia dello stato sociale


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