Il 1992 segnò un momento cruciale nella storia contemporanea: la fine della Guerra Fredda e
lo sgretolarsi dell’ordine bipolare che per più di quarant’anni aveva modellato il panorama
geopolitico mondiale. È in questo contesto che il politologo Francis Fukuyama pubblicò “La
fine della storia e l’ultimo uomo”. La tesi del libro, che in poco tempo divenne sempre più un
classico all’interno delle facoltà di scienze politiche in tutto il mondo occidentale, era tanto
audace quanto controversa: con il trionfo del capitalismo, l’umanità avrebbe raggiunto il
punto massimo e finale dell’evoluzione ideologica e politica. Secondo Fukuyama, il collasso
dell’Unione Sovietica l’anno prima, e la vittoria del liberalismo, non lasciavano spazio
all’instaurazione di una nuova ideologia rivale. La democrazia liberale si poneva come il
sistema definitivo, in grado di garantire sia il benessere materiale che il riconoscimento
individuale, valori riconosciuti come indispensabili. Questo scenario appariva plausibile a
causa della profonda trasformazione che attraversava l’Europa, con l’indipendenza delle ex
repubbliche sovietiche, la riunificazione delle due Germanie e la firma del trattato di
Maastricht, che poneva le basi per la costruzione di un’Europa finalmente unita, dopo secoli
di guerre. Inoltre, è bene porre l’attenzione su come il vecchio continente, già negli anni ’80,
fosse stato colpito da un’ondata liberista e liberale dettata dalla vittoria della Thatcher nel
Regno Unito prima, e quella di Reagan negli USA dopo, che si aggiunsero alla morte di
Berlinguer nel 1984 e al fallimento del governo Mitterrand in coalizione con i comunisti
francesi.
Tuttavia, a distanza di pochi anni, le premesse ottimistiche del saggio di Fukuyama si
rivelarono fragili, se non ingenue. Infatti, anziché inaugurare un’era di pace e prosperità, come suggerito dal politologo statunitense, gli anni successivi alla pubblicazione del libro furono segnati da confitti e tensioni globali. Già nel 1991, prima dell’uscita del saggio, scoppiò in Europa un conflitto che ancora oggi porta con sé i suoi effetti: la guerra nell’ex Jugoslavia. A questo si aggiunsero altri conflitti come quelli in Iraq (2003), Siria (2011) e Ucraina (di fatto dal 2014, anno della conquista della Crimea da parte russa, fno ad oggi), che dimostrarono quanto il mondo fosse ancora lontano dal concetto di Fukuyama di “fne della storia”.
Parallelamente, la democrazia liberale cominciò a mostrare segnali di crisi. L’affermazione
del capitalismo globale e fnanziario, anziché portare benessere diffuso, approfondì le
disuguaglianze sociali e marginalizzò larghe fasce di popolazione. Sempre più persone oggi
percepiscono le istituzioni democratiche come inefficaci e subordinate agli interessi delle
grandi multinazionali, alimentando una crescente disaffezione politica. Ne è l’esempio il calo
diffuso della partecipazione politica alle varie tornate elettorali di diversi paesi occidentali,
accompagnato dall’ascesa di leader populisti e carismatici, che fanno della loro persona il
principale, se non unico, programma politico, come nel caso di Trump o Orban, tra gli altri.
Anche in Italia abbiamo assistito negli ultimi anni a una personificazione della politica e degli stessi partiti. Un esempio banale è l’uso sempre più esteso del nome del leader politico
all’interno del simbolo del suo stesso partito, una pratica impensabile nella Prima Repubblica (vi immaginate quanti nomi avrebbero occupato il simbolo della DC?).
L’assenza di alternative ideologiche all’attuale sistema economico ha creato un vuoto che,
come ha osservato lo studioso americano Joel Kotkin, rischia di condurre verso una nuova
stratifcazione sociale che viene defnita neo-feudalesimo. Infatti, sempre più stati, prima di
prendere decisioni in ambito economico o sociale, si interfacciano con le grandi aziende e
multinazionali, le quali influenzano pesantemente determinate decisioni dei governi, così
come un sovrano nel Medioevo, prima di dichiarare guerra a un altro regno, doveva chiedere
l’appoggio di tutti i signori feudali per le concessioni di denaro, equipaggiamento e soldati. Ad oggi, aziende come Apple e Microsoft hanno un valore superiore al PIL dello stato italiano (2,4 trilioni) e molte altre multinazionali hanno superato la soglia del trilione per valore di mercato: Saudi Aramco, Alphabet (Google), Amazon e Nvidia, a cui si aggiungono Meta e Tesla, che dopo aver superato tale soglia nel 2021 oggi fluttuano tra gli 800 e i 900 miliardi di dollari di valore di mercato.
La visione di Fukuyama, che vedeva l’affermazione di un liberalismo totalizzante all’interno
del sistema democratico, può essere considerata, ad oggi, conflittuale. All’interno di un
sistema democratico, per sua stessa natura, devono coesistere idee differenti che, pur
dovendo accettare il regime democratico, devono anche essere contrapposte tra loro e creare alternative differenti per chi vota. Un sistema democratico in cui gli schieramenti politici vengono percepiti come simili, se non sovrapponibili, è destinato al fallimento. Quando le idee si uniformano o ne domina una sola, come nella visione di Fukuyama, il rischio di cadere nel conformismo è concreto. Questa situazione crea terreno fertile per il sentimento diffuso che “nessun partito può cambiare nulla”, un fattore che spiega ancora di più l’ascesa di forze politiche estreme che promettono cambiamenti radicali, anche a costo di abbandonare i principi democratici (ma non necessariamente anche quelli legati al sistema economico attuale).
In questo clima, la politica rischia di tornare a una forma di autoritarismo
mascherato, dove i cittadini rinunciano progressivamente alla partecipazione attiva e
demandano tutto il potere a leader percepiti come forti o “salvatori della patria”. Un sistema
che ci porta indietro nel tempo, quando i cittadini venivano chiamati sudditi.
