La poetica di Guido Gozzano (1883-1916) è stata di riferimento per alcuni poeti del Novecento (pensiamo ad esempio ad Eugenio Montale, il quale notò all’interno delle opere del poeta torinese la commistione di <aulico> e <prosaico>). Nonostante ciò, oggi di Gozzano si sente parlare poco, forse troppo poco: nei licei o non se ne parla, oppure si accenna definendolo attraverso l’etichetta poetica del <crepuscolarismo>, che come tutti gli –ismi aiuta ad orientarsi ma non riassume certamente l’autore (è fuorviante, per chi scrive, ricondurre uno scrittore, un filosofo o un poeta ad una categoria statica, ipostatizzante, la quale non rende merito delle innumerevoli sfaccettature di un’opera).
Ma perché si dovrebbe leggere (o ri-leggere) Gozzano? E perché è importante nel quadro della poesia italiana del Novecento? Diciamolo con parole semplici: Gozzano è una boccata d’aria fresca; rispetto a cosa? Rispetto allo stile pesante, alto e aulico della tradizione precedente: Pascoli in primis, ma soprattutto Gabriele d’Annunzio (sui cui testi lo stesso Gozzano si forma); inoltre già con Gozzano tramonta la figura del poeta-vate. Le sue poesie sono spesso uno sguardo ironico nei confronti della tradizione (in numerosi versi si prende gioco di d’Annunzio in maniera implicita) e dell’esistenza: attraverso uno sguardo distaccato e leggero, il poeta riesce a contrastare la tragicità della vita, e nello specifico della sua vita personale: all’età di ventiquattro anni (l’età di chi scrive) si ammala di tubercolosi e dopo otto anni muore giovanissimo.
Senza molti giri di parole, oggi parlerò di una poesia che amo ma che, per problemi di lunghezza, non riporterò totalmente. Invito tuttavia alla lettura qui.
Il commesso farmacista è una poesia sparsa di Guido Gozzano del 1907. È una breve storiella (molte poesie di Gozzano sono <storie> più o meno lunghe) in versi (circa 90) nei quali il poeta torinese ci racconta di un dialogo col suo farmacista (come si evince dal titolo) il quale compiange la morte di tubercolosi, come Gozzano, della sua futura sposa. Da questo racconto nasce l’occasione per una riflessione sulla poesia in generale e sulla sua corruzione; il motivo da cui scaturisce sta in una particolare abitudine che il farmacista ha per commemorare la moglie: scrivere versi in solitudine.
<< Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
a sera, di svagarmi; lo potrei…
Preferisco starmene con lei
e faccio versi… non me ne vergogno >>.
Il farmacista preferisce la solitudine della scrittura poetica rivolta nei confronti della defunta compagna alle vane distrazioni che la vita sociale potrebbe offrirgli. Per timidezza quasi, si rifiuta di leggerli a Gozzano, altrimenti la loro magia svanirebbe e sarebbe irrispettoso per la morta a cui sono indirizzati. A questo punto interviene Gozzano:
Imaginate con che rime rozze,
con che nefandità da melodramma
il poveretto cingerà di fiamma
la sposa che morì priva di nozze!
Il cor… l’amor… l’ardor…la fera vista…
il vel… il ciel… l’augel… la sorte infida…
Ma non si rida, amici, non si rida
del povero commesso farmacista.
Queste due strofe cosa ci dicono? Gozzano ci invita ad immaginare quanto possano esser brutti (con richiamo esplicito al melodramma) i versi che il farmacista dedica alla defunta, e lo sarebbero in quanto egli non è un poeta di professione; ma nonostante ciò il poeta ci invita a non deriderlo; per quale motivo? Perché per Gozzano, il commesso farmacista è più poeta di tutti noi, letterati di professione che non sono più in grado di scrivere versi a partire da sé stessi ma solo per il grande pubblico, tentando di suscitare ed indurre emozioni che allo scrittore risultano estranee, o ancora per la glorificazione da parte degli altri: tutti elementi che per Gozzano costituiscono quella che lui definisce <tabe letteraria>, ovvero la corruzione dei letterati. I versi del commesso farmacista sono un tramite tra la dimensione del finito e quella dell’<eterno infinito>, un modo per ricongiungersi con l’amata; ed ecco che la poesia torna al suo ruolo di consolatrice nei confronti dell’individuo. Riportiamo alcuni versi sia per la bellezza sia per chiarire meglio questo punto.
Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch’egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.
Egli certo non pensa all’euritmia
quando si toglie il camice di tela,
chiude la porta, accende la candela
e piange con la sua malinconia.
Egli è poeta più di tutti noi,
che, in attesa del pianto che s’avanza,
apprestiamo con debita eleganza,
le fialette dei lacrimatoi.
[…]
Per lui soltanto il verso messaggiero
va dal finito all’infinito eterno.
<< Vede, se chiudo il povero quaderno
parlo con lei che dorme in cimitero >>.
A lui soltanto, o gran consolatrice
poesia, tu consoli i giorni grigi,
tu che fra tutti i sogni prediligi
il sogno che si sogna e non si dice.
Lo scarso panorama della poesia contemporanea, soprattutto in Italia, ha ben altri problemi rispetto a quelli che Gozzano riscontra nella sua contemporaneità. In primis troviamo una difficoltà di accesso agli editori da parte dei poeti per un motivo che è più semplice di quanto si creda: la poesia, ahimè, non vende più. Questo non significa assolutamente che non ci siano poeti bravi e che la poesia sia morta. Il gigante da sconfiggere è la logica capitalistica degli editori i quali tra la pubblicazione di un libro di poesie di un giovane esordiente e una biografia di un personaggio di tendenza, i famigerati influencer (ma è solo uno di innumerevoli casi), preferiscono, per una questione di profitto, quest’ultima. E potremmo ricondurre questo atteggiamento a questo verso di Gozzano:
Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
saputi all’arte come cortigiane,
in modi vari, con lusinghe piane
tentiamo il sogno per piacere agli altri.
È l’immagine delle < cortigiane sapute all’arte > a richiamare la nostra attenzione che, lontanamente dal significato gozzaniano, oggi porta a pensare ad una vera e propria prostituzione editoriale (nel caso di Gozzano era la prostituzione dei poeti nei confronti della gloria).
Chi scrive questi articoli vorrebbe persuadere il lettore che la poesia non è morta; in tutti gli articoli pubblicati fino ad ora, le poesie analizzate, di autori più o meno lontani nel tempo, ci hanno parlato in maniera diretta, come se fossero stati presenti di fronte a noi a parlare di noi a noi.

Sì:la poesia torna al suo ruolo di consolatrice nei confronti dell’individuo”
Per me lo è e sono come il farmacista. Oggi abbiamo un pc e non una candela a dare luce, forma, a pensieri, ricordi e farne preziosi veicoli di guarigione.