La storia non si ripete

Era il primo agosto del 1938. Helmut chiuse il libro e guardò fuori dalla finestra; non era una storia molto credibile, però gli era piaciuta. Nel giardino che traboccava di fiori le macchie di rose rosse partivano appena sotto il davanzale e si estendevano fino al cancello, parecchi metri più in là. Al centro, gli iris formavano un’isola viola, e l’erba era punteggiata da un tappeto di margherite. I peri erano già carichi di piccoli frutti e su tutto regnava la tranquillità operosa delle api che sciamavano ronzano. Ma lui sentiva un’inquietudine oscura che non gli dava tregua. Com’era più facile quando aveva dieci anni! Bastava fare i
compiti e poi c’era sempre tanto tempo per giocare. Niente pensieri molesti. Niente preoccupazioni né responsabilità. Invece, appena compiuti diciassette anni si trovò di fronte alla prima scelta difficile da fare, con suo padre che lo spingeva verso la carriera scientifica, mentre lui avrebbe voluto diventare un romanziere. Certo, non aspirava ad affermarsi come il novello Shakespeare, però sentiva di avere tanto da dire. Ciò che lo attirava erano soprattutto i meccanismi mentali, i sogni, i simboli che il professor Sigmund Freud aveva appena scoperto. In altre parole, era affascinato da tutto ciò che era spirituale, dalla magia,
dall’intuizione contrapposta al freddo raziocinio. E, come se non bastasse, c’era quel sottile tormento che gli impediva di concentrarsi per recuperare l’insufficienza in matematica. L’unico rimedio, a volte, era prendere la bicicletta e pedalare fino a sfiancarsi. Incapace persino di studiare con un minimo di attenzione, decise di ricorrere ancora al suo sport preferito. Due minuti dopo era in sella, verso la periferia di Monaco che distava una ventina di chilometri. Lì non c’erano i grandi palazzi del centro, la severa maestosità del Rathaus o le sfarzose dimore dei gerarchi. Da quelle parti le case erano piccole, talvolta fatiscenti, ma
l’atmosfera operosa era piacevole, allegra. Deviando dalla strada maestra, si inoltrò in un dedalo di vicoletti punteggiato da modeste botteghe artigiane. Vide un cestaio al lavoro che stava completando un grande paniere di vimini, seduto su una seggiolina, mentre parlava con un uomo in maniche di camicia senza interrompere lo svelto viavai delle mani. Più in là, un pittore stava ultimando l’insegna di una farmacia.

La parola “apoteke”, al centro, era affiancata su entrambi i lati da due vasi sui quali era scritto rispettivamente “Hipericum” e “Helichrysum”. Un buon odore di pane si spandeva da un forno affollato dalle massaie che attendevano il loro turno sullo stretto marciapiede. Helmut fece un largo giro per oltrepassarle e si accorse che la stradina appena dopo la bottega finiva in una bella piazzetta circondata dai platani. Stanco e sudato, pensò di fare una breve sosta sotto gli alberi, prima di riprendere la sua escursione. Scese di sella e sedette su una panchina ben ombreggiata. La luce era talmente forte che doveva strizzare gli occhi per guardarsi intorno. Proprio davanti alla panchina, sull’altro lato della piazzetta, vide la botteguccia di un orologiaio e si ricordò che il suo orologio da polso andava avanti di parecchi minuti ogni giorno. Lo avrebbe portato lì al prossimo giro in bici. Poi quasi svenne. Il suo tormento interiore si era personificato in quell’istante. Una ragazza dai lunghi capelli neri era uscita dal negozietto dirigendosi a passi veloci verso il fornaio. Era tutto il
contrario di ciò che lo studente aveva sempre sognato; una bella ragazza bionda con gli occhi verdi e una pelle candida, alta e piena di salute. Eppure, lo sconosciuta dalla chioma scura e la pelle abbronzata lo aveva conquistato immediatamente. Helmut non avrebbe saputo dire se quella creatura fosse più o meno bella, ma aveva subito visto nel suo viso qualcosa in cui si era riconosciuto; come se avesse incontrato la sua stessa anima, ma al femminile. Troppo timido per accostarla, si limitò a seguirla da lontano, fino a una
casetta piccina ma graziosa, nella quale lei entrò senza suonare la campanella. Doveva abitare proprio lì.

Il ragazzo proseguì senza fermarsi. Era al settimo cielo. Era spaventato. E forse lo sarebbe stato ancora di più, se avesse saputo che il suo pedinamento non era passato inosservato. Miryam si era accorta subito del giovane seduto sulla panchina ed aveva sentito lo stesso scombussolamento. Ma non si fece illusioni; aveva notato la bicicletta costosa, le scarpe eleganti, la maglia da tennis, e altri dettagli che rivelavano l’appartenenza a una classe sociale molto lontana dalla sua. Poteva essere persino il figlio di un qualche gerarca nazista e averla seguita solo per curiosità; un po’ come quando si guarda un animale allo zoo. Si
infilò il grembiule e cominciò a sbucciare le patate per la cena, cercando di dimenticare in fretta quell’incontro. Immaginare un amore tra loro, o anche solo un solo incontro, era impensabile. Helmut stava altrettanto male, ma un motivo affatto diverso; temeva che il suo sentimento non sarebbe stato corrisposto, una volta rivelato. Sulle prime, non si rese conto che tra lui e la ragazza esisteva una barriera molto più difficile da penetrare; l’odio razziale scatenato dai nazisti verso gli ebrei.

Pedalò più veloce che poté, schiacciando i pedali con furia nella speranza di calmarsi per evitare domande imbarazzanti. Però era felice. Molto più felice di quando il padre lo lodava per un compito ben fatto. Mangiò in fretta e si rinchiuse in camera senza aspettare il dolce. “Caro. Devi nutrirti bene alla tua età. Ne hai bisogno per crescere”.
Rispose senza guardarla: “Hai ragione mamma. Ma domani ho l’interrogazione di scienze”. Poi, appena fu solo, si stese sul letto e chiuse gli occhi. Voleva imprimersi nella memoria quel viso dolce e fiero che aveva potuto ammirare per pochi minuti appena. Pensava già a quando sarebbe uscito l’indomani e, forse avrebbe rivisto la giovane donna della quale non conosceva nemmeno il nome. Ma la vita gli fece un perfido sgambetto. Invece del giro in bicicletta che aveva progettato, dovette accompagnare il padre in un viaggio d’affari a Norimberga. L’uomo voleva abituare il figlio alle trattative d’affari. Gli fece visitare tre
fabbriche, presentandogli i direttori e illustrando le varie lavorazioni che vi si facevano. Alla fine, era troppo tardi per tornare a casa, perciò dormirono in un alberghetto dal pretenzioso nome di “Goldener adler”; cioè “aquila d’oro”. Helmut, comunque, passò tutta la notte a fissare il soffitto al buio, impaziente di tornare a cercare la ragazza più bella del mondo. Non sentì la notizia del giorno perché lui e il padre partirono molto presto. Alla radio, qualcuno stava ripetendo di ora in ora che erano iniziate le pulizie. Quando finalmente riuscì a tornare nel dedalo di viuzze dove aveva incontrato la ragazza, trovò una totale distruzione. In giro
non c’era nessuno e la casa di Miriam stava bruciando come tutte le altre.

Helmut sapeva cosa stava succedendo e seppe subito che non avrebbe più rivisto la ragazza. Ma i pochi ricordi che ne conservava continuarono ad assillarlo per mesi. Il padre era un modesto borgomastro che non aveva abbastanza conoscenze per ottenere qualche informazione e, del resto, il ragazzo non raccontò mai in famiglia di quell’incontro. Passarono alcuni anni. La guerra sembrava quasi vinta. Poi la situazione cambiò. In Russia l’esercito tedesco trovò una strenua resistenza. Man mano che passavano i mesi
iniziarono le sconfitte. A Leningrado l’armata, finora considerata invincibile, dovette ritirarsi. Le perdite pesavano e lo stato maggiore dovette arruolare uomini sempre più giovani. Finché fu la volta dei ventenni come Helmut che, in quanto figlio di un piccolo funzionario, non ebbe diritto ad alcun trattamento di favore. L’unico privilegio riservatogli fu di non mandarlo al fronte, bensì nei magazzini (lager) che erano stati allestiti per attuare la cosiddetta “soluzione finale” della questione ebraica. Arrivò al lager di Treblinka una mattina d’inverno. Anche dopo aver visto gli orrori del campo 27 continuò a servire lealmente il suo
comandante. Il suo senso del dovere era molto più potente della pietà. Dentro di sé continuava a ripetersi che quelli non erano esseri umani. Ma questo implicava che non lo fosse nemmeno la donna amata, della quale non conosceva il nome né la sorte. Nelle sue fantasie, tentava di separarla dalla sua stirpe. Chissà; magari era stata adottata e nelle sue vene scorreva sangue italiano o spagnolo.
Lo assegnarono al pattugliamento del campo. Doveva sorvegliare i prigionieri che lavoravano alla costruzione di una strada. Ogni tanto, qualcuno tentava di fuggire scappando verso il bosco. Helmut però non dava scampo a nessuno. Mentre prendeva la mira e sparava si sentiva come un maestro che redarguiva gli scolari. Scappare significava trasgredire le regole e lui era felice di poter punire chi lo faceva. Ne uccise tanti da meritare un encomio ufficiale da parte del kommandant. Sentiva sempre uno strano rodimento nell’anima, ma lo attribuiva al fatto che, malgrado avesse raggiunto la maggiore età, non conosceva ancora le gioie del sesso. Tale inconveniente fu risolto da un’inserviente polacca, che un giorno lo abbordò con una scusa, riuscendo a trascinarlo nella lavanderia, che a quell’ora era deserta. La donna era belloccia e le bastò guardare il ragazzo con un sorriso malizioso per ottenerne la totale e immediata capitolazione. Lo aveva adocchiato pensando di poterne ottenere qualche privilegio (aveva sentito dire che Helmut era un pupillo del comandante), invece finì per farsi prendere la mano e non passava giorno senza che i due si appartassero a scopare. Ma lui, dopo l’entusiasmo iniziale, iniziò a percepire la futilità di una relazione dove
non c’era alcun dialogo e nemmeno qualche interesse in comune, sesso escluso. Dobrina era figlia di contadini. Non sapeva leggere e non aveva nessuna curiosità. Anzi, la sua mente ottusa si bloccava subito, se Helmut tentava di raccontarle la storia degli inventori che avevano reso grande la Germania. Pian piano, diradò i loro incontri. Se lei gli mandava a dire che voleva vederlo rispondeva di non aver tempo, fingendo di essere di servizio.
Le cose nel frattempo peggiorarono. Ad est L’esercito fu sconfitto dai cittadini di Leningrado. E l’Europa era un immenso campo di battaglia. I lager più ad est furono sgombrati in tutta fretta, mentre i prigionieri venivano trasferiti in altri campi di sterminio. Molti loro morirono durante la marcia forzata. Un mattino di gennaio Helmut era sul piazzale principale, quando vide arrivare in lontananza una lunga colonna di disperati scortati da un centinaio di SS. Li guardò distrattamente, come se non lo turbasse affatto la fame che li aveva trasformati in scheletri viventi. Come se i loro occhi spenti non meritassero alcuna considerazione. Avevano già varcato il cancello, quando in mezzo a un gruppo di vecchie, giovani che
sembravano comunque vecchie e bambine emaciate ritrovò lo sguardo fiero e nobile di cui si era innamorato, tanto tempo prima. Anche lei era magrissima, i lineamenti deformati dai patimenti, ma gli occhi erano gli stessi. Splendenti di una luce arcana. Miriam invece non lo riconobbe. Era troppo stanca per alzare il viso su quei soldati che abbaiavano comandi e picchiavano chiunque capitasse sotto le loro grinfie.
Forse, aveva intuito che era il suo ultimo viaggio. Che sarebbe finita in un forno come milioni di suoi simili, colpevoli solo di non appartenere alla razza giusta.
Per Helmut fu impossibile rimanere indifferente. Sapeva bene cosa sarebbe accaduto all’unica donna che amava da lì a pochi giorni, Forse, ore. Sentì un fiotto di nausea salire dallo stomaco. Non poteva sopportare un epilogo siffatto. Da quel momento, fu come se un altro essere si fosse insinuato nei suoi pensieri. Niente poteva fermarlo. L’ufficio del comandante era vuoto. Gli bastarono pochi minuti per entrare e scrivere in fretta un lasciapassare per sé e l’ebrea che voleva salvare. Aveva appena messo i timbri sul documento quando entrò un suo commilitone, che era in attesa di una licenza per raggiungere la moglie incinta. “Il comandante non c’è. Lo stavo aspettando anch’io. Ora però devo tornare. Ho un turno di servizio proprio adesso.” Sbattè i tacchi più forte del solito e uscì, senza attendere la risposta. Ma non era possibile agire subito. Troppi soldati in giro. Troppi controlli. Andò nella sua camerata e si distese sul letto. Mancavano due ore al buio. Tentò di dormire. Tentò di leggere. Infine, si risolse a scrutare fuori della finestra. C’era
parecchia animazione. Le cattive notizie al fronte avevano fatto il giro del campo e vedeva capannelli di soldati intenti a discutere animatamente. Finalmente giunse il buio. Allora andò dal capoposto egli chiese di poter entrare nel capannone delle prigioniere. Il comandante gli aveva chiesto di cercarne una, in particolare che doveva essere interrogata immediatamente. La trovò solo dopo aver ispezionato il dormitorio per due volte. Era rannicchiata sulla branda ad occhi chiusi. Le si avvicinò con circospezione e le
parlò a bassa voce. ”Ti porto via di qui. Dimmi solo il tuo nome. Non aver paura di me. Sono l’unico amico che ti è rimasto.” La ragazza rispose subito. Poteva essere una trappola, ma tanto sapeva che non sarebbe uscita viva da quel lager. Tanto valeva credere al soldato, che la stava fissando con un’espressione implorante. “Mi chiamo Miriam Azreb”. Helmut tirò fuori il salvacondotto e scrisse il nome della donna appoggiandosi a una colonna. “L’hai trovata?” “Sì, ora la porto nella sala degli interrogatori. Come ti chiami? Farò il tuo nome al comandante. Magari ci rimedi un turno di riposo extra.” “Mi chiamo Julius Swirner. Grazie camerata.” Helmut sorrise e se ne andò tenendo Miriam per il braccio, come se volesse impedirle di scappare. Si assicurò che il comandante fosse in ufficio (le luci erano accese) e si diresse senza esitazioni verso la guardiola al cancello. “devo prendere una moto, e in fretta. Mi attendono a Berlino con questa prigioniera speciale. Ne va della sicurezza nazionale.” Il piantone non ebbe nulla da obiettare. Pochi minuti dopo il campo era già lontano. La ragazza si accucciò nel sidecar, incredula di quello che le stava succedendo. Il lager non si vedeva più e iniziò a sperare di essersi salvata davvero. Parecchi chilometri dopo, la moto imboccò una stradina sterrata e si fermò soltanto quando furono arrivati in un radura circondata dal fitto degli alberi. Lì, al buio, Helmut le raccontò di averla già incontrata molti anni prima, nel sobborgo di Monaco dove l’aveva vista entrare in una casetta piccola ma accogliente. Per rassicurarla, le descrisse con precisione i vasi di geranei alle finestre e le tendine di pizzo, ricamate con figure di angeli. Poi scoppiò a piangere. L’orrore della sua vita gli cadde addosso per la prima volta e si rese conto di non avere alcuna giustificazione. Aveva odiato. Aveva ucciso. Aveva ubbidito a ordini feroci senza discuterli ma nemmeno dentro di sé. Istintivamente, Miriam lo abbracciò, ma invece di calmarsi Helmut urlò di dolore.
Lui la amava. Lo sapeva. Ma lei avrebbe avuto per sempre mille motivi per odiarlo. Ripresero il viaggio verso nord attraversando campagne desolate. La guerra aveva trasformato i contadini in soldati e non era rimasto più nessuno ad occuparsi della terra. Dopo tre ore incontrarono un posto di blocco. Helmut non attese l’halt. Lo precedette, intimando ai soldati di fare rifornimento alla moto. Aveva una missione di estrema importanza da compiere e qualsiasi disguido sarebbe stato punito duramente. Non ebbe nemmeno bisogno di esibire il lasciapassare. Il suo contegno autorevole bastò. Qualche minuto dopo ripartì , accelerando solo quando fu sicuro di non poter essere inseguito. Ci mise quattro giorni a arrivare al confine polacco. Ma non proseguì verso Berlino. Puntò a est, sperando di riuscire ad arrivare in territorio sovietico, dove intendeva consegnarsi come prigioniero di guerra. Ogni tanto si fermava nelle case dei pochi contadini rimasti, ai quali chiedeva un po’ di pane o latte. Pagava sempre, il che insospettì qualcuno. Erano abituati a truppe di
occupazione che facevano razzia di tutto, senza dare nulla in cambio; salvo lasciare vivi i poveri malcapitati.
Miriam rifiorì in fretta. Quella dieta di patate, pane e latte le fece bene, insieme alla speranza tangibile di ricominciare a vivere senza più svegliarsi di notte in preda a un incubo. Helmut le aveva giurato che, una volta giunti in salvo, sarebbe stata libera di decidere se restare con lui o andarsene libera. E il momento di decidere venne presto. Appena furono vicini al confine russo abbandonarono la motocicletta e presero la via dei monti. Si fermarono varie volte, perché spaventati dal rumore degli spari, che però era anche utile a orientarsi. Il confine doveva essere necessariamente nella direzione da cui arrivavano i colpi. Quella notte
dormirono abbracciati sotto la giacca da ufficiale di Helmut. Non sarebbe stato prudente passare il confine di notte, in una foresta che non conoscevano. Ripartirono all’alba, dopo che l’uomo ebbe fabbricato una rudimentale bandiera bianca tagliando un ramo con il coltello che aveva in dotazione, come tutti i soldati del Reich. Poi avanzarono lenti, ascoltando attentamente i suoni provenienti dalla sommità del monte, pronti a gettarsi a terra al primo colpo di fucile. Ma, per fortuna, udirono soltanto qualche sparo molto lontano. Helmut si aspettava da un momento all’altro di vedere spuntare un pattuglia russa. Restò senza parole quando gli si presentò davanti un gruppo di contadini armati di forche e qualche fucile. Lui parlava solo in tedesco, mentre Miriam sapeva qualche parola di russo; abbastanza per chiarire la situazione e raccontare che l’uomo intendeva arrendersi come prigioniero di guerra. Furono accompagnati in una isba distante un paio di chilometri ed Helmut fu preso in consegna dai soldati sovietici. Dentro c’era un bel calduccio e ben presto si addormentò. Miriam avrebbe potuto andar via, invece preferì restargli accanto, anche per rispondere alle tante domande che le fecero i militari russi. Erano molto sospettosi decisero di chiamare un rabbino che viveva poco distante per fare da interprete con la donna. Costui non si limitò a riportare le parole di Miriam, preferendo arricchirle di particolari romanzeschi che non corrispondevano ai fatti ma li rendevano più interessanti; la qual cosa fu molto efficace. Al punto che, di lì a poco, Helmut fu rivestito con abiti civili e invitato a brindare alla ritrovata libertà nel grande paese del socialismo. Almeno da quella parti, la guerra era ormai finita, L’esercito nazista era in rotta e si respirava già l’entusiasmo della ricostruzione. I due fuggiaschi rimasero alcuni anni a vivere nel villaggio, poi si trasferirono a Kiev. Appena
fu possibile, cambiarono i loro nomi per mettersi al riparo da possibili vendette. Miriam diventò Julieta, mentre Helmut si diede un nome italiano di pura fantasia: Roberto Omeo. Ma lo abbreviava sempre quando doveva firmare qualche documento in R.Omeo. Alla fine, il ricordo di un libro letto di malavoglia da adolescente gli sembrò di buon auspicio.

C. Turrini

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