La poesia e le poesie in generale parlano di noi, anche se ciò non dovrebbe stupire più di tanto: sembra un’affermazione di poco conto, ma i poeti sono (o sono stati) esseri umani come noi; esseri umani che provavano dei sentimenti, che si sentivano sbagliati, confusi, spaventati, oppure provavano amore, gioia, serenità, stupore, o ancora, un connubio di emozioni contrastanti. Per cui smettiamo di relegare i poeti in una sorta di paradiso trascendente a contatto con chissà quali entità o divinità.
Appurata l’umanità dei poeti, veniamo al tema di oggi.
A chi non è mai capitato di sentirsi tanto abbattuto da perdere la voglia di vivere? O forse di provare una totale indifferenza nei confronti dell’esistenza e del mondo? Beh, nessuno è solo (per fortuna) e moltissimi autori hanno tentato di rappresentare questa sensazione nei loro versi: pensiamo ad esempio a Leopardi nella poesia A sé stesso, così come a molti altri. Ma oggi parleremo di una poesia di un autore italiano che da questa sensazione mortifera cerca di trarre uno sforzo nei confronti della vita; ma veniamo subito al testo.
Portami il girasole ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il giorno agli azzurri / specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture. /
Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; / portami il girasole impazzito di luce.
Questa poesia di Eugenio Montale (1896-1981) è tratta dalla raccolta Ossi di seppia (1925) ed è contenuta nell’omonima sezione.
La prima strofa si apre con una richiesta: <portami>; ma chi è questo <tu> sottinteso? Potrebbe essere il lettore, ma anche il poeta che parla con sé stesso, oppure anche il lettore potrebbe star parlando con sé stesso o col testo della poesia; è bello tenere a mente tutti questo possibili punti di vista. La richiesta è banale: un fiore, un girasole nello specifico; ma perché? Perché la condizione esistenziale descritta è di aridità (un grande tema montaliano è infatti l’aridità esistenziale). Lo stato d’animo del poeta (o del lettore) viene presentato come un campo dal terreno secco in cui stenta ormai a fiorire qualsiasi cosa. L’obbiettivo di questo girasole nella prima strofa è mostrarsi freneticamente al cielo come se implicitamente volesse affermare: <esisto anche io>.
La seconda strofa è una riflessione sulla presa di coscienza dell’inesorabilità della morte, la quale viene descritta come un viaggio (immagine che probabilmente Montale riprende da Baudelaire), il viaggio dei viaggi potremmo dire, la <ventura delle venture>. È solo grazie a questa consapevolezza che possiamo rivolgerci verso la vita; ed è proprio questo che la terza strofa ci esorta a fare: andare a ricercare nuove luci anche quando il torpore esistenziale ci assale. Il tutto culmina nell’ultimo verso il cui tono assertivo apre come una frattura tra la luce e l’oscurità: <portami il girasole impazzito di luce>.
Sta proprio qua il significato della poesia: anche nei momenti più difficili noi dobbiamo continuare ad impazzire di luce; non è un caso che il fiore scelto sia un girasole, il quale deve il suo nome all’eliotropismo che lo caratterizza. Il girasole, infatti, segue sempre la luce del sole per tutto il giorno con lo sguardo (se così non fosse, morirebbe), e la notte ritorna a guardare ad est (come se ricercasse la luce anche nelle tenebre più profonde) da cui poi risorgerà. In questo senso potremmo dire che un girasole impazzito di luce è un girasole impazzito di vita.
La poesia può essere un valido alleato per sentirsi meno soli e un po’ meno strani, pensando per esempio che determinate sensazioni che proviamo nessuno sia in grado di comprenderle. È per questo che dobbiamo respingere con forza tutte quelle critiche rivolte alla poesia che l’additano come arte ancestrale. La poesia ci parla tutt’oggi ed è più viva che mai, sta a noi ricercarla, tenderle l’orecchio e udirne la melodia.
- L’immagine pubblicata è l’opera Prima Neve del maestro Alessandro Tofanelli

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